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Attualità domenica 17 febbraio 2019 ore 09:14

Breve storia della siderurgia piombinese #2

Su #tuttoPIOMBINO Gordiano Lupi propone una breve storia della siderurgia piombinese, in questa seconda parte gli sviluppi fino a oggi



PIOMBINO — Breve storia della siderurgia piombinese - prima parte

Breve storia della siderurgia piombinese - seconda parte

La grande industria siderurgica uscì a pezzi dalla fine del secondo conflitto mondiale: nel 1944 lo stabilimento e la città circostante erano un cumulo di macerie, furono rimosse le rovine, ma i danni erano ingenti. Il 77% dello stabilimento era a pezzi. Furono gli stessi operai a dare il via alla ricostruzione. 

Il 2 gennaio del 1946 alcuni impianti furono in grado di ripartire e si ricominciò subito a produrre acciaio. Nel 1951, il ministro Togni e l’ambasciatore americano Dayton inaugurarono l’altoforno uno, ricostruito dagli operai che si portarono gli attrezzi da casa, raccogliendo il poco carbone e il minerale disperso in fabbrica. Nel 1952 lo stabilimento piombinese raggiunse e superò i livelli produttivi prebellici. Merito anche del Piano Sinigaglia (1948) che non si limitava al ripristino degli impianti distrutti, ma imponeva un rinnovamento e il potenziamento industriale. 

La siderurgia assumeva un ruolo di primo piano e il governo investiva capitali su Piombino. Il piano prevedeva la chiusura di stabilimenti minori, come Portoferraio, e il potenziamento degli altiforni piombinesi. 

Nel 1953 si ricorda uno dei momenti più bui della storia piombinese con la decisione della Magona di chiudere l’acciaieria: 759 licenziamenti, due terzi degli occupati. Furono giorni di lotte e di scioperi, quando lo stabilimento riaprì i battenti, tra coloro che più si erano esposti vennero effettuati licenziamenti repressivi. Nel 1957, l’Ilva contava 2.500 addetti e la popolazione residente raggiungeva le 30.000 unità. Per risolvere i problemi abitativi, furono realizzate nuove case per i dipendenti, nei quartieri Salivoli, Città Nuova e un nuovo comparto in località Diaccioni.

Raccontare la storia della Piombino anni Cinquanta significa fare anche la storia del sindacato e dei grandi movimenti politici che tutelavano gli interessi dei lavoratori. Le grandi industrie siderurgiche furono teatro di conflitti e di battaglie per i diritti degli operai che venivano continuamente violati. Furono lotte anche ideologiche, improntate alla teoria marxista dello scontro di classe, con lo scopo di ottenere salari adeguati, turni di lavoro più umani e condizioni igienico - sanitarie accettabili. In questo periodo la crisi della Magona fece segnare il passo all’economia locale, oltre al fatto che non partì il progetto per il quarto centro siderurgico, ma venne preferito Taranto. Oggi verrebbe da aggiungere: per fortuna. In compenso l’Ilva - azienda a partecipazione statale - cominciò ad assumere un numero spropositato di lavoratori, superiore alle necessità della pianta organica. Il governo riteneva che l’Ilva non dovesse badare soltanto al profitto ma svolgere pure una funzione sociale: dare lavoro alle persone. Va da sé che con il passare del tempo la gestione secondo criteri non commerciali e non aziendali farà venire al pettine i nodi di molti problemi.

Nel 1961 l’Ilva si fuse con Cornigliano per diventare Italsider Altiforni e Acciaierie Riunite Ilva e Cornigliano. La strategia governativa imponeva di puntare tutto sui grandi poli siderurgici come l’Italsider, in contrapposizione alle piccole acciaierie private, come il Gruppo Lucchini a Brescia. Inutile dire che la gestione pubblica, a parte risolvere il problema occupazionale, non è stata un bene per lo stabilimento di Piombino, perché ha sovradimensionato la pianta organica badando poco o niente alla produttività. Se nel 1960 i dipendenti erano 3.000, con l’Italsider raddoppiarono, assumendo molti diplomati e laureati per migliorare la potenzialità tecnologica dello stabilimento. 

Dal 1969, oltre a produrre rotaie, Piombino cominciò a realizzare acciai speciali. La città contava ormai 35.000 abitanti ed era il centro di continue lotte operaie assurte a simbolo di lotta al padronato. La siderurgia era il primo - per non dire unico - interesse locale. Tutto veniva sacrificato sull’altare dell’acciaio, persino le regole urbanistiche, il rispetto ambientale, la cura del patrimonio artistico. La città si sviluppò in modo caotico e abnorme, tenendo conto soltanto di dove dovevano essere costruite le case per gli operai. Piombino viveva di fabbrica e per la fabbrica. “Fumo e pane!”, era il motto dei vecchi. “Prendilo, è di Magona!”, dicevano le madri alle figlie in età da marito. Nessuno avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe potuta arrivare la crisi. Turismo era una parola che a Piombino - regno dell’acciaio - nessuno osava pronunciare, un concetto astruso e incomprensibile per chi vedeva la sua giornata scandita dal suono delle sirene dell’altoforno. Follonica e San Vincenzo vivevano di turismo. Piombino era diversa. A Piombino c’era la grande industria siderurgica che dispensava fumo e lavoro. La parola diversificazione avrebbe cominciato a fare capolino solo molti anni dopo, in tempi recenti, e siamo ancora qui a farci i conti, ora che la colonna di fumo si è fatta sempre più flebile.

Torniamo alla storia della siderurgia senza divagare. Un accordo con la Fiat portò alla costituzione di un nuovo marchio aziendale, le Acciaierie di Piombino, con sede in città, per produrre laminati lunghi da sfruttare nell’azienda automobilistica torinese. Lo stabilimento venne inopinatamente allargato in direzione del centro cittadino, facendo assumere a Piombino ancor più l’aspetto di città - fabbrica. Cominciava la crisi, per problemi di competitività, che un’azienda a partecipazione statale non poteva sostenere. Troppi dipendenti, costi enormi, poco profitto. Nel 1981, le Acciaierie di Piombino acquistarono gli stabilimenti di Marghera e San Giovanni Valdarno. L’azienda cambiò ancora una volta nome in Deltasider spa, con l’ingresso della ex Breda Siderurgica e della ex Acciaieria Fiat. Erano i tempi in cui si vedeva in continuazione cambiare il nome da solerti operai nel grande capannone amaranto all’ingresso della città. Non si faceva in tempo a stare dietro alle novità e a registrare le modifiche del marchio aziendale che si cambiava ancora. 

Piombino era la capitale italiana degli acciai speciali, ma era quasi impossibile competere con la concorrenza internazionale e con i privati, che dovevano fare i conti con minori costi di gestione. Nel 1991, il nuovo gruppo Ilva mise in campo il progetto Utopia, idea affascinante che a Piombino non venne mai attuata. Non c’è che dire, almeno il nome l’avevano azzeccato. Cornigliano e Bagnoli sono state chiuse e bonificate, come previsto, ma il recupero del polo industriale di Piombino non è mai stato affrontato e - a questo punto - mai lo sarà. Non sarebbe stato male, invece, trasferire l’ingombrante presenza cittadina dell’acciaieria in un zona lontana dal centro, ma sembrava irrealizzabile a livello di costi. 

La crisi dell’Ilva portò la fine della proprietà pubblica e l’arrivo di un padrone privato: il Gruppo Lucchini di Brescia. Ricapitoliamo in breve ciò che è storia contemporanea, rapporti negativi di causa - effetto che stiamo ancora scontando. Il cavalier Lucchini arrivò a Piombino nel 1992, non riuscì mai a legare con la città, non fu amato da chi aveva sostenuto il progetto Utopia e sperava di realizzare un rilancio pubblico dello stabilimento. Lucchini è stato sempre percepito come un corpo estraneo al tessuto cittadino, un nemico da combattere, un bubbone da estirpare, un cancro maligno che poteva degenerare in metastasi. Si ricordano le storiche giornate di sciopero degli anni 1992 - 1993 contro la privatizzazione dell’Ilva, una lotta che durò 39 giorni con manifestazioni e occupazioni di strade e ferrovia, forse una delle più dure degli ultimi vent’anni. Se durante il periodo delle partecipazioni statali l’occupazione nelle acciaierie aveva raggiunto 8.100 unità, con la gestione Lucchini vide scendere i posti di lavoro a poco più di 2.200, con gravi dissapori sindacali e lotte per la sicurezza in fabbrica e il mantenimento del posto di lavoro. 

Tutto il resto è storia di oggi, un periodo buio che significa la crisi del settore acciaio, un nuovo gruppo privato come Severstal, arrivato nel 2005, solo per spremere quel che restava dell’azienda, lasciandola in mano alle banche. Il salvataggio compiuto nell’estate 2011, le prospettive cupe con la chiusura dell’altoforno e la possibilità di proseguire l’attività con forni elettrici e nuove tecnologie. Pagine di storia ancora da scrivere, vita quotidiana che parla di scioperi, prepensionamenti, pericoli occupazionali. Piombino non deve chiudere, dicevano gli striscioni durante la grande manifestazione di protesta del 3 ottobre 2013. Il futuro della città dovrà essere ancora l’acciaio, ma non solo, servirà un progetto di sviluppo composito, la creazione di un’identità ibrida, andrà disegnata una nuova Piombino che riesca a far convivere un’industria meno invasiva con un turismo intelligente. Questa è la sfida per i prossimi anni, un nuovo progetto utopia che speriamo di poter continuare a coltivare tutti insieme. 

La storia contemporanea parla di un acquisto finito male – dopo tante illusioni – da parte del gruppo algerino Cevital, vincitore sul filo di lana di una battaglia economica con gli indiani di Jindal. Tralasciamo episodi che riguardano venditori di fumo arabi e la battaglia scorretta compiuta da Federacciai per far morire Piombino per guardare con speranza a un futuro diversificato. Cevital ha fallito nel suo impegno per Piombino, ancora non è dato sapere il motivo, quindi è tornata alla carica Jindal, che per il momento ha fatto ripartire i laminatoi e ha presentato un piano industriale dove si parla di forni elettrici e di nuova produzione dell’acciaio a Piombino. Non resta che attendere, senza lasciarsi prendere da facili illusioni.

A questo link puoi rileggere la prima parte, dalle origini alla seconda guerra mondiale.

Gordiano Lupi
© Riproduzione riservata


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